Hai già promosso un progetto di film collettivo: perché preferisci produrre progetti con più registi piuttosto che film “standard” con un solo regista?
Il film è prodotto dall’Università di Tel Aviv, un’istituzione che di solito non promuove i lungometraggi degli studenti, benché qualche volta nelle fasi finali possa aiutare a sviluppare un corto in lungometraggio.
Inoltre, questi sono film che hanno un orientamento socio-politico e, anche se la loro posizione politica è chiara dall’idea iniziale fino alla realizzazione stessa, richiedono di prendere in considerazione una varietà di situazioni e di punti di vista.
Quanto a me, mi piace la combinazione tra fiction e documentario, soprattutto quando i personaggi del documentario si trasformano così facilmente in veri archetipi drammatici. Per esempio Abu Firas, il venditore d’acqua palestinese che vediamo in uno degli episodi del film, non è forse un attore dentro la dolorosa e surrealistica situazione di una città assetata (Betlemme) che anela disperatamente una tanica di acqua? Includendo la sua storia in questa serie di film differenti si crea un intero, un lungometraggio completo che è il risultato che stavo cercando.
Come hai scelto i registi coinvolti nel progetto?
I registi israeliani che partecipano al progetto li ho scelti fra i miei studenti di cui conoscevo meglio il lavoro. Per esempio, uno di loro, Pini Tavger, ha diretto un cortometraggio di 7 minuti durante il suo primo anno di università e il suo lavoro mi ha commosso al punto che gli ho domandato di svilupparlo ulteriormente. E’ così che è nato l’episodio Drops.
Per il lato palestinese, mi sono avvicinata ad un gruppo di cinque studenti palestinesi provenienti da Betlemme e Ramallah tramite Facebook e grazie all’aiuto dei miei giovani produttori Maya de Vries e Kobi Mizrahi. Il frutto di questo incontro è The water sellers.
Un altro contatto palestinese era Ahmad Barghouthi, un produttore e montatore. Mentre effettuavamo delle ricerche sulla situazione dell’acqua nel Territori Occupati, lui mi ha portato alla piscina gestita da Kareem. A quel punto abbiamo deciso che avrebbe dovuto essere il regista di un film su questo tema, film che sarebbe stato il suo primo lavoro cinematografico. E’ così che è nato Kareem’s pool.
L’idea per il film Eyedrops è nata durante una conversazione con Mohammad Bakri, un attore palestinese, ed un amico. Mi ha raccontato di una sua esperienza personale, che ho pensato fosse una metafora straordinaria del conflitto israelo-palestinese. Si tratta di una storia vera che ha coinvolto lui e la sua vicina, una donna sopravvissuta all’Olocausto. L’anziana signora gli aveva chiesto aiuto con il collirio, dato che senza queste non poteva vedere – e di conseguenza non poteva riconoscere in lui un arabo-palestinese.
Per alcuni registi che partecipano al progetto questo è il primo lavoro cinematografico. Pensi che un film collettivo così importante sia una buona occasione per iniziare la loro carriera?
Assolutamente sì! Hanno avuto l’opportunità di esprimersi in campo cinematografico ma anche di affrontare argomenti personali, spesso dolorosi. Li hanno tenuti dentro per lungo tempo ed ora hanno avuto la possibilità finalmente dargli espressione con uno sbocco professionale. Sarebbe stato molto probabile che senza questa opportunità avrebbero scelto temi più facili e convenzionali.
Pensi che il film possa essere utile per un dialogo interculturale pacifico tra Israele e Palestina?
Una persona può restare pessimista e non fare nulla per la lunga e statica situazione politica che ha caratterizzato la nostra regione. Sfortunatamente la maggior parte della gente si comporta in questo modo. Personalmente non posso invece che prendere una posizione attiva e lottare continuamente per creare un dialogo.
30.08 — 09.09