Famiglie disfunzionali, rapporti conflittuali genitori/figli sullo sfondo di una crisi economica che mette a dura prova l’esistenza quotidiana delle giovani generazioni ma non solo di quelle; movimenti di migrazione miranti alla ridefinizione del proprio futuro ma anche alla rilettura del proprio passato; il suicidio, o l’omicidio, come impossibilità di accettare il presente e la perdita dei propri punti di riferimento.
È il “film” della Settimana internazionale della critica di Venezia di quest’anno: un nastro unico che contiene in sé una visione frastagliata di un mondo in crisi, una visione concepita da una manciata di esordienti di identità anagrafica diversa, che ancora affidano al cinema, fortunatamente, un’esigenza espressiva primaria, e ai festival il compito di darle voce e spazio.
Perché, inutile nasconderlo, questo mondo è lo stesso in cui il cinema fatica a trovare un senso, anche economico, alla propria funzione e dove i festival, come tutte le manifestazioni culturali (se li riteniamo ancora tali), in Italia più che altrove, spesso misurano nella precarietà di mezzi a loro disposizione l’impermeabilità di una società che forse non ne sente più il bisogno. Anche il compito della Settimana della critica è messo a dura prova, in anni come questi: giunti alla venticinquesima edizione, che festeggiamo con il recupero-evento di uno dei nostri esordi italiani migliori, resistiamo all’onda ancorandoci alle nostre certezze.
E ci illudiamo di continuare a compiere le nostre scelte nell’esclusiva volontà di trovare segni di vitalità nel cinema che si compie per la prima volta nella codificata forma del “lungometraggio”. Termine che può anche non significare più nulla, già superato per quanto riguarda le sue distinzioni tra finzione e documentario, e che presto lo sarà ancora di più quando la circolazione delle forme espressive di immagini in movimento raggiungerà in rete un livello così massiccio da rendere superflui e insensati non solo i festival, ma soprattutto termini come opera prima, prima mondiale o internazionale, film inedito, durata… e preistorie del genere.
Intanto, partiamo da Mazzacurati: nel 1987 il suo Notte italiana dava il via, nell’ambito della nostra quarta Settimana, alla sua coerente carriera di cineasta appassionato, spesso appartato, ma soprattutto uno dei pochi, in questo trentennio, in grado di interpretare e narrare il territorio e la società italiana, le loro trasformazioni spesso traumatiche, il degrado morale, politico ed economico che si faceva strada e che ci avrebbe portato allo tsunami Mani Pulite prima, e alle preoccupanti derive istituzionali poi. Notte italiana, rivisto oggi, fa quasi spavento per la sua modernità, e affascina per il suo costituire un mix di commedia e noir, racconto ottocentesco d’avventura e cinema classico, mescolati e modellati su un Marlowe del Polesine incarnato da uno dei migliori Marco Messeri di sempre.
Nel programma di questa edizione della Settimana figurano in concorso sette prime mondiali: farà parlare di sé, ne siamo sicuri, Hai paura del buio, il film d’esordio di finzione di Massimo Coppola, cineasta, documentarista, autore televisivo. Un film che non sembra appartenere al cinema italiano, per quel suo stile rigoroso fatto di pedinamenti lenti, ostinati ma partecipi nei confronti di due figure di giovani donne, una rumena e una italiana, attraverso le quali l’autore cerca di interpretare un presente dove le incerte prospettive di lavoro si intrecciano con rimossi familiari e con la ricerca di un posto proprio dove mettere radici. Una felice rivelazione.
Figure di donne inquiete, in cerca di qualcosa che le proietti verso un futuro migliore, o ostinatamente concentrate sulla decisa rimozione di traumi familiari, in altri film della selezione: in Angèle et Tony, primo film della giovane Alix Delaporte, che vinse un Leone d’oro a Venezia con un suo cortometraggio, l’affascinante Clotilde Hesme è una madre che cerca di farsi riaffidare il figlio attraverso un matrimonio combinato. Tuttavia Tony, il pescatore rozzo ma gentile che accetta il contratto si rivela molto più determinante nella vita di Angèle: e il film, un dramma leggero e commovente, si iscrive felicemente in quella corrente del cinema francese in grado di saldare l’osservazione del reale con l’analisi dei sentimenti.
Pernilla August, la famosa attrice di Den goda viljan (Con le migliori intenzioni, 1982) di Bille August e di Det enda rationella (Una soluzione razionale) di Jörgen Bergmark (presentato l’anno scorso alla Settimana della critica), esordisce nella regia con un dramma familiare che oscilla temporalmente fra due periodi, i giorni nostri e gli anni settanta. Tratto dal romanzo di Susanna Alakoski, Svinalängorna vede protagonista Noomi Rapace (la Lisbeth Salander della saga di Millennium) nei panni di una donna costretta a fare i conti col suo passato tormentato in occasione della morte della madre. Un film sincero e spesso disturbante, che si giova di ottime perfomance d’attore.
Un altro ritratto di donna, questa volta d’età più avanzata, in Martha, piccolo film messicano di Marcelino Islas Hernández, che testimonia il felice momento di questa cinematografia. Una impiegata settantenne viene soppiantata dal computer: restandole ben poco nella sua triste vita decide di farla finita, ma il film le lascia una via d’uscita inaspettata. Combinando grottesco e commedia nera con un sottofondo drammatico, Hernández costruisce un gioiellino che non mancherà di sorprendere.
Sorprendenti saranno sicuramente il film greco e quello sloveno: Hòra proèlefsis (Terra madre) di Syllas Tzumèrkas è ancora un affresco familiare che copre trent’anni di storia greca, dagli anni del consolidamento della democrazia alle recenti manifestazioni di piazza scatenate dalla crisi economica. Un montaggio vertiginoso e un talento narrativo inusuale per un film che racconta il dramma di una famiglia con i suoi conflitti generazionali e i suoi punti oscuri ai limiti dell’incesto. Mentre al contrario Oča (Papà) dello sloveno Vlado Škafar, fa della lentezza contemplativa e del poetico contrapporsi generazionale fra un padre assente e il figlio il suo punto di forza. Un piccolissimo film, di appena più di un’ora, fatto di immagini evocative, di dialoghi naturali e emozionanti, di alcuni momenti che sembrano cogliere la flagranza del reale nel fascino della sua messa in scena e nel notevole lavoro sugli attori.
Settimana che completa la sua competizione con un film israeliano, Hitparzut X opera prima di un regista che è stato uno degli autori della serie televisiva Be Tipul (da cui gli americani hanno ricavato In Treatment). Un noir molto classico, con un anziano professore che scopre il tradimento della sua giovane moglie e si lascia trasportare da un impeto di rabbia violenta. L’omicidio, con conseguenti sensi di colpa, trascinerà il protagonista in comportamenti contraddittori, in un film elegante e misterioso, che si avvolge a spirale sullo spettatore.
Per concludere, fuori concorso, la prima internazionale di un film filippino, Limbunan di Gutierrez Mangansakan II: un film rituale ed enigmatico, abitato da figure femminili di grande bellezza e sottile disperazione, che vivono imprigionate in una tradizione ancestrale e apparentemente senza vie d’uscita. Una storia di donne, anche questa, costrette da una tradizione impietosa a non poter scegliere l’oggetto del loro amore. Un film affascinante e ammaliante, che chiuderà nella maniera migliore questa edizione speciale della Settimana internazionale della critica.
30.08 — 09.09